Puntualmente,
con le stesse acrimonie, con le stesse animosità, con le stesse intolleranze e
con le stesse chiusure mentali, ritornano le guerre ideologiche sul
"fine-vita". È stato così con Piergiorgio Welby nel 2006, idem con Eluana Englaro nel 2009 ed è così anche oggi con Fabiano
Antoniani, più comunemente detto dj Fabo.
Gli anni
passano, le situazioni di disumanità con i loro problemi si ripresentano e con
essi, immancabilmente, si ripresentano anche i fossati di incomprensione e i
muri di ottusità.
Al fine
di un ragionamento più pacato e in vista di un reciproco rispetto tra le
posizioni penso sia utile la riflessione sulle due tematiche che animano il
dibattito: l'accanimento terapeutico e l'eutanasia. Per quanto riguarda
l'accanimento terapeutico è bene sapere che anche la riflessione della chiesa
ufficiale è stata ed è del tutto contraria.
Il
Catechismo della Chiesa Cattolica all'articolo 2278 recita: "L'interruzione di
procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate ai
risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia
all'accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta
di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente se ne ha
competenza e capacità".
Riguardo
poi all'uso degli analgesici nell'articolo 2279 si legge: "L'uso di
analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di
abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se
la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e
tollerata come inevitabile". Posto così il problema sembra risolto.
L'interrogativo
si pone quando, considerati i grandi progressi della medicina, si tratta di
distinguere il dovere di cura dall'accanimento terapeutico. Dove finisce l'uno
e comincia l'altro?
Qui,
naturalmente, si richiede un altissimo senso di responsabilità e una grande
maturazione di coscienza. Quanto all'eutanasia, è pur vero che la Chiesa
Cattolica è di per sé contraria, ma va anche detto che nel panorama della
riflessione teologica non mancano posizioni dall'atteggiamento
"possibilista".
Tali
ipotesi, dopo tutto, si fondano su un principio comunque incontestato, anche se
completamente rimosso nell'attuale dibattito. Si parte dal principio che per un
cristiano la vita non è "il bene assoluto" cui tutto subordinare!
Tanto è
vero che il sacrificarla per altri alti valori (la giustizia, la fede, la
castità etc.) è ritenuto, dalla tradizione cristiana, un atto di eroismo e di
santità. Rebus sic stantibus, direbbero i filosofi, perché ritenere immorale il
cessare di vivere quando la vita ha perso ogni connotato di relazionalità con
gli altri, ogni traccia di autocoscienza, ogni altra dimensione che, andando
oltre la pura "vegetalità", dia dignità al vivere stesso?
Personalmente ho avuto modo, in più di un'occasione, di trovare più dignitoso
il gesto disperato di un suicida che non il pecoreccio vivacchiare di gente
senza scrupoli.
Il
teologo tedesco Hans Küng, poi, si spinge anche oltre. Dall'affermazione che
"il diritto alla vita non può essere scambiato per una coercizione a
vivere" alla tesi che "essendo l'inizio della vita umana posto da Dio
nelle mani della responsabilità dell'uomo, si può analogamente pensare che
anche la fine della vita venga da Dio posta sotto tale responsabilità".
Il problema
dell'eutanasia va correlato sì alla morte, ma questa a sua volta va connessa
strettamente alla nozione di "vita" che è qualcosa di molto più alto
che il semplice vegetare. L'arroccamento della Chiesa in difesa della vita a
prescindere da tutto, dalle condizioni oggettive e soggettive e perfino dalle
persone stesse che della vita dovrebbero essere le beneficiarie, lo trovo anche
antievangelico come di colui che sacrifica le persone concrete ai principi
astratti e che antepone il sabato all'uomo. Una morale autenticamente
evangelica dovrebbe stabilire delle finalità di vita piuttosto che esporre
regole di condotta.
Sia
chiaro: non si vuole con ciò legittimare la trasformazione della tecnica in
strumento di morte né benedire l'ambiguità profonda di una scienza che diventa
un delirio di onnipotenza. No! La complessità del problema non deve spingere
nessuno a una apertura qualunquista e superficiale, ma non deve nemmeno
imprigionare le possibili scelte dentro la cremagliera della condanna più
assoluta.
Giustamente,
il teologo Giannino Piana scrive, a proposito di eutanasia: "Al di là
delle complesse e delicate questioni di ordine politico e giuridico, che vanno
affrontate con grande prudenza in una prospettiva non puramente individualista
ma attenta ai risvolti sociali e culturali delle decisioni, il nodo
fondamentale che occorre sciogliere riguarda l'esistenza o meno del diritto di
autodeterminazione nei confronti della morte".
Anche
qui, fronte al radicale rifiuto del diritto di autodeterminazione da parte della
chiesa ufficiale, a partire dal presupposto che la vita è un dono di cui noi
non possiamo disporre, vanno emergendo, sempre in ambito cattolico, ipotesi
alternative (sia pure minoritarie).
Intanto
già di fronte alla motivazione addotta contro ogni forma di eutanasia sorgono
domande che qualcuno potrebbe trovare "impertinenti" ma che toccano
il cuore della teologia. Si dice, appunto: "La vita è un dono di Dio di
cui l'uomo non può pienamente disporre". Ma, ci si domanda, che dono è ciò
che non viene pienamente e definitivamente dato?
E che
responsabilità è quella per cui si è costretti a gestire la vita per conto
terzi? E questo Dio che concede con una mano e trattiene con l'altra cosa ha a
che fare con quel Dio che "dona oltre ogni misura"? Sono forse due
"Dio" diversi?
Si ha
l'impressione, insomma, che la posizione della chiesa ufficiale sia fondata più
su preoccupazioni ideologiche che su motivazioni teologiche.